Famiglia, anche le risorse economiche sono cultura
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Il ministro Giorgetti ammette che la denatalità è una patologia che impatta sulla spesa pubblica. Ma non affronta il vero problema: la sostenibilità finanziaria imposta dai lacci della stabilità europei. Toglierli sarebbe la vera riforma culturale ed economica di cui il Paese avrebbe bisogno per non morire. Perché la famiglia ha bisogno di risorse adeguate. Come indicava già Giovanni Paolo II nella Centesimus annus.

Intervenendo in audizione dinanzi alla Commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti economici e sociali derivanti dalla transizione demografica in atto (presieduta dall’onorevole Elena Bonetti) il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha finalmente ammesso che il calo demografico in Italia non è soltanto strutturale, ma è una patologia che impatta direttamente sulla spesa pubblica. Sembra una verità ovvia, ma come lo stesso Giorgetti ha detto non è mai stata presa veramente in considerazione dalla politica e dalle istituzioni. «Quando finisce la popolazione in età fertile – ha detto nel corso della sua audizione -, quando rimangono solo gli anziani, non nasce più nessuno e intere comunità sono destinate a morire. Si tratta di un tema che tutta la classe politica ha presente, ma che tende deliberatamente ad accantonare».
«Accantonare deliberatamente», dunque. La fotografia offerta dal ministro è drammatica, come sempre indica l’ormai fisiologico bollettino dell’Istat sui nuovi nati e sul rapporto figli per donna che in Italia segna ad ogni anno che passa uno zero virgola più basso e che fa sembrare preistoria l'ultimo Family Day, di cui ieri si celebrava il decimo anniversario.
Ovviamente il ministro ha cercato di presentare le sue carte al meglio, però. E lo ha fatto elencando quelle – per la verità poche – misure che il Governo sta introducendo per provare a invertire la rotta. Ha citato «l’assegno unico e universale per i figli», «le misure fiscali a sostegno diretto della famiglia», «le detrazioni per determinate spese sostenute per i figli, il potenziamento di politiche che vadano a mitigare le criticità economiche, sociali, lavorative e culturali che frenano la natalità». E ha parlato del bonus nuove nascite e del «parziale esonero contributivo a favore delle mamme di due e tre figli con una retribuzione inferiore a 40.000 euro».
Si tratta, come è evidente, di pannicelli caldi, che non andranno ad incidere granché su un cambio di mentalità e di cultura che dalla politica in giù nessuno sembra avere.
Il motivo, che però Giorgetti non può ammettere, è molto semplice ed è lo stesso ministro a lasciarlo intendere nelle premesse della sua relazione: «A livello europeo, come è noto, l’applicazione delle nuove regole di bilancio europee del Patto di Stabilità e Crescita, entrate in vigore ad aprile 2024, si basa sull’analisi di sostenibilità del debito». Questo perché «il fattore “ageing” (l’invecchiamento della popolazione ndr.) rileva in modo significativo nelle valutazioni sulla sostenibilità e sul rischio del debito pubblico formulate dalle organizzazioni internazionali e dalla Commissione Europea, nonché dalle società di rating».
Ecco, infatti che, prima di andare a elencare le ricette, Giorgetti ribadisce che «il Governo punta a sviluppare una strategia che combini dati, politiche coerenti e sostenibilità finanziaria».
Questo è il vero elefante nella stanza: la sostenibilità finanziaria. Per quanto impegnato a cercare di mitigare gli effetti della depopolazione e a rifiutare ricette maggiormente traumatiche per la tenuta del tessuto sociale, come il cosiddetto “immigrazionismo”, ossia l’importazione di nuovi nati da paesi in via di sviluppo, il Governo sa che non potrà mai andare oltre il patto di stabilità imposto dall’Unione Europea, pertanto dovrà sempre fare, per usare un termine gergale ma comprensibile, le nozze con i fichi secchi: facciamo con quel poco che c’è per dare un po’ di ossigeno alle famiglie e per sperare che chi oggi non si sposa per motivi meramente economici, sia incentivato a farlo. Sapendo che non servirà a nulla.
Questo apre ad un gigantesco scenario di analisi, che attiene al fattore culturale, ossia alle motivazioni per le quali gli italiani non fanno più figli, che non sono ovviamente solo di stampo economico, ma sono di visione della vita e della persona, di fiducia nel futuro e di valorizzazione dell’istituto della famiglia, che gli italiani hanno perso da tempo, anche a fronte della secolarizzazione che li ha investiti.
Considerare però le misure economiche come antitetiche o alternative alle motivazioni di fondo culturali, come una parte del governo sta cercando di fare per non dover ammettere che le risorse non sono mai sufficienti, non è l’approccio migliore per guardare in faccia il problema. Perché, se ci guardiamo dentro, anche le motivazioni economiche e le relative risorse stanziate per invertire la rotta della decrescita, sono a loro modo culturali.
Il fatto che uno Stato comprenda che sta morendo e che per non morire deve tornare a dare alle nuove generazioni la fiducia di investire sul futuro, è un fattore culturale formidabile, che si affianca agli altri aspetti culturali non meno importanti di sguardo aperto alla vita. Oggi, sposarsi senza poter contare su una stabilità di lavoro e di casa, senza poter disporre di una rete di supporto, è davvero un ostacolo insormontabile per le nuove generazioni. Non bisogna lamentarsene, ma prenderne atto. Si dice che una volta, negli anni ‘50 e ‘60 si facevano tanti figli anche se non c’erano tutte queste sicurezze economiche. Vero. Ma è altresì vero che i quegli anni, gli anni dei nostri nonni per intenderci, c’era un sistema paese che poteva garantire a chiunque di poter crescere una famiglia, non senza sacrifici ovviamente, ma con una speranza e una fiducia nel futuro che oggi è assente. E con una rete economica capace di sostenere.
Perché se è vero che non si fanno i figli soltanto per mere ragioni economiche, è altrettanto vero che le ragioni economiche sono una componente indispensabile per decidere di investire sulla famiglia. Non come condicio sine qua non, ma come habitat per affacciarsi alla nuova vita matrimoniale. Lo Stato in questo senso deve applicare il principio di sussidiarietà in favore della famiglia, togliendole quegli ostacoli ad una sua realizzazione piena. Sarebbe più importante, ad esempio, una riforma fiscale non su base personale, ma famigliare, di tutte le elargizioni di stato attuali. Perché la famiglia, in formazione o in sviluppo, non ha bisogno dell’assistenzialismo, che fa ricadere il tutto nelle spese di welfare per il sostegno famigliare, perché questo, lo abbiamo visto, non produce sviluppo. Ma è il consentire alla famiglia di poter avere quelle risorse necessarie al suo sostentamento.
Lo spiegava molto bene profeticamente nel 1991 San Giovanni Paolo II Papa nella Centesimus annus che «l'uomo lavora per sovvenire ai bisogni della sua famiglia» e che «è urgente promuovere non solo politiche per la famiglia, ma anche politiche sociali, che abbiano come principale obiettivo la famiglia stessa, aiutandola, mediante l'assegnazione di adeguate risorse e di efficienti strumenti di sostegno». Dunque, per assegnare risorse e che queste siano adeguate, che pure sono necessarie, la famiglia deve essere messa in condizione di poter contare su un lavoro, su una casa e su un sistema economico capace di darle quella libertà.
Per fare questo, però, bisogna ammettere che le politiche degli ultimi anni, che hanno vincolato le spese per la famiglia al patto di stabilità, non hanno funzionato per questo motivo. E che farle uscire dai lacci imposti dall’euroburocrazia di Bruxelles, i quali non possono essere considerati un dogma intoccabile, sarebbe davvero l’unica, vera riforma culturale e al tempo stesso economica di cui questo Paese avrebbe bisogno. Tutto il resto è un tirare a campare che non farà altro che portare sempre di più verso il baratro.